Da
un’intuizione quasi un secolo fa è nato un colosso sulla via Emilia che
continua a sfornare soluzioni hi-tech e sostenibili. Così l’azienda leader
mondiale nella produzione di tappi per l'industria dell'imbottigliamento guarda
al futuro. Per FARE Insieme Giampaolo Colletti intervista Marco Checchi, AD del
Gruppo Pelliconi
di Giampaolo Colletti
@gpcolletti
Photocredit: Giacomo Maestri e Francesca Aufiero
C’è un’impresa che brinda
32 miliardi di volte all’anno. Perché tanti sono i tappi che nascono in quella
via Emilia che brulica di intuizioni e innovazione. Tappi che vengono prodotti
e aperti in ogni angolo del mondo, ma che hanno un cuore italiano, anzi emiliano.
Siamo a Ozzano dell’Emilia, meno di quindicimila anime nell’area metropolitana
bolognese. Qui negli anni ‘60 si trasferisce la Pelliconi, che nasce però molto
prima sotto le Due Torri. Correva l’anno 1939 e Angelo Pelliconi, un piccolo
produttore di minuteria metallica, un giorno da un tappo a corona su una
bottiglia americana ci trovò altro, dando vita alla Ditta Angelo Pelliconi,
diventata oggi Pelliconi Spa, emblema del made in Italy nel settore delle
chiusure per bottiglie. Storia di innovazione di prodotto, ma anche di ricerca
spasmodica per nuove idee che vanno oltre il metallo o la plastica, componenti tradizionali
del packaging per l’industria del food & beverage. Agli esordi l’azienda
contava una quarantina di dipendenti motivati e multitasking, come si direbbe
oggi. Il trasporto delle lastre si faceva a mano e i tappi nascevano su
macchine semi-automatiche. Qui prendevano vita anche le capsule da olio e da
vino e persino le confezioni delle mitiche pasticche del Re Sole. Poi nel 1975
fanno ingresso le prime macchine per tappi a corona evolute. Da qui i tappi con
guarnizioni in sughero, fino poi all’approdo al PVC negli anni ’80. E infine nel
2008 l’approdo al rivoluzionario tappo a strappo Maxi P-26. «Non abbiamo mai smesso di fare
innovazione, per noi è sempre stata una sana ossessione. In fondo il packaging
deve essere bello, intelligente e responsabile».
Lo ripete come un mantra Marco Checchi, Amministratore Delegato di Pelliconi, manager
entrato in azienda nel 1984 come direttore acquisti e da quest’anno Cavaliere
del Lavoro.
Innovazione
dal cuore verde
Il mercato
di riferimento è legato alla birra al 50%, poi ci sono le bibite e le acque
minerali. Ma per capire bene l’impatto nel settore dobbiamo pensare che queste
soluzioni vengono adottate ovunque. «Siamo
convinti che il nostro approccio alla sostenibilità del business sia la scelta migliore
per continuare il percorso di successo che ci ha permesso di diventare quello
che siamo oggi. Per assicurare a clienti e consumatori i migliori prodotti
tutti i nostri stabilimenti hanno aderito a standard internazionali sempre più
esigenti in termini di qualità, sicurezza alimentare e ambiente. La nostra creatività
è rivolta a ciò che è utile. E ancora prima c’è il rispetto: per le persone, per
la comunità, per l’ambiente»,
dice Checchi. L’imbottigliatore è così sostenibile, ma anche hi-tech. Come gli
imballaggi, sempre più riciclabili e ridotti al minimo. E poi ci sono le
innovazioni legate all’intelligenza artificiale, col controllo e il riordino
dei tappi in magazzino. «Siamo
orientati alla massimizzazione dei profitti, ma in modo consapevole. La
sostenibilità fa parte del nostro DNA da sempre. Abbiamo un bilancio di
sostenibilità dal 2011, da quest’anno revisionato da Deloitte & Touche SpA.
Solo in questo modo si lega il business ad azioni concrete e misurabili per la
salvaguardia dell’ambiente. Penso al risparmio energetico, al controllo delle
acque, alla gestione dei rifiuti, alle attività legate alla formazione e alla
sicurezza sul posto di lavoro»,
precisa Checchi. Prima del business o del dividendo per gli azionisti c’è la comunità.
Nel 2020 l’azienda ha lanciato “Pelliconi Plants a Forest”: con la startup Treedom
è riuscita a piantare 3282 alberi in 5 Paesi del mondo e a sostenere duecento
contadini con le rispettive famiglie.
Prima
del business, la cultura
Radici
ancorate al territorio e la capacità di scalare i mercati. Ad oggi Pelliconi
conta cinque stabilimenti nel mondo: due in Italia, a Ozzano dell’Emilia e ad
Atessa, in provincia di Chieti. Poi c’è lo stabilimento egiziano al Cairo,
quello a Orlando negli Stati Uniti, quello a Suzhou in Cina ed è in fase di
apertura il sesto nel distretto nazionale high-tech di Changzhou. Oggi
l’azienda dà lavoro a quasi 600 persone con un fatturato annuo di 154 milioni
di euro e un export che sfiora il 95% della produzione, arrivando in più di 100
Paesi. La chiave è l’essere glocal. Vicini al locale ma internazionali. È la
cultura del local for local basata sulla trasparenza, sul rispetto,
sull’ascolto. Un’azienda col tetto di cristallo. D’altronde la vision si
esplicita nel “modo di essere, pensare, lavorare”. «Questo approccio ha anche un
vantaggio competitivo. E poi le persone devono essere quelle che sono. Questo
consente di entrare per esempio nella stessa lunghezza d’onda del consumatore
cinese, che non è uguale a quello africano».
Attenzione alle diverse culture, ma anche alle diverse generazioni. Nasce così
dieci anni fa il Laboratorio Angelo Pelliconi “Università per la creazione del
valore”: un contenitore di opportunità formative per i dipendenti e per la
comunità con i corsi tenuti dagli stessi manager che lavorano in azienda. «Si tratta di una scuola che insegna
le basi di economia per tutti i dipendenti. Facciamo parlare i nostri anziani,
la memoria storica: così tramandiamo la tradizione della cultura industriale.
Questo è il vero passaggio di trasmissione intergenerazionale. La cultura non deve
diventare una zavorra perché l’azienda ha bisogno di cambiamento, ma può
sintetizzare principi e costruire rinnovamento»,
dice Checchi.
Un
tappo che fa molto altro
«La parola smart ha diverse accezioni.
Oggi significa che un packaging è intelligente perché è in grado di raccogliere
informazioni sul contenuto, facendo una sorta di profilazione. Ma c’è anche un'altra
accezione, che declina il pack in qualcosa di più: tutto questo implica
l’utilizzo di minore materia prima, ma anche l’adozione di forme che possano consentire
anche altri utilizzi dello stesso tappo»,
racconta Checchi. Un tappo che fa altro,
oltre all’essere tappo. La ricerca apre a nuovi scenari per un marketing che si
reinventa sfruttando anche i materiali in continua evoluzione. Pelliconi ha creato
così un tappo a corona che al posto dei denti presenta una bordatura e in
quello spazio è possibile stampare delle informazioni aggiuntive. Ci sono poi
altri aspetti legati ai nuovi materiali in lavorazione, come il fatto che non presentano
metalli pesanti. «La
ricerca migliora le prestazioni e contiene l’impatto sull’ambiente. Il tappo
diventa una leva di marketing. Tutto è partito dalle promozioni fatte proprio sui
tappi. In passato semplici attività, mentre oggi si creano codici alfanumerici
che rimandano all’esperienza di navigazione sugli smartphone. Tutto questo
permette agli imbottigliatori di fornire promozioni a ritmi serrati: oggi con
un software possiamo cambiare rapidamente concorso, profilare i consumatori con
uno specifico QR code e stampare sui tappi differenti tipologie di messaggi. Nascono
anche trailer o giochi che partono da quel tappo che diventa molto di più». E poi c’è l’apertura verso le
piccole e medie realtà artigianali, come le birrerie che stanno proliferando un
po’ ovunque e che finora potevano utilizzare principalmente tappi anonimi. Per loro è arrivato P•ink, il nuovo servizio
per la stampa digitale su tappo, sviluppato internamente e brevettato per prodotti
personalizzati anche in piccoli lotti.
La
famiglia allargata
Il
futuro però si costruisce partendo dal passato e guardando al futuro. «Il nostro è un lavoro di squadra, in
fondo siamo una famiglia allargata che va dagli Stati Uniti alla Cina. E come
succede nelle famiglie quando qualcuno è in difficoltà lo si aiuta. D’altronde
c'è un mazzo di carte dove ogni giorno puoi estrarne una e non sempre può
andarti bene».
La pandemia è stata una cosa del genere. Per Checchi il COVID19 ha messo a nudo
le debolezze del sistema e ha ribaltato una normalità che si dava per scontato.
«Noi abbiamo fatto il nostro lavoro ancora
meglio e con procedure straordinarie messe in piedi in brevissimo tempo. E
abbiamo imparato ad essere ancora di più squadra, e questo significa essere in
ascolto». D’altronde solo con le orecchie tese
si possono cogliere i segnali di futuro.
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