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FARE INSIEME - Ep. 1 - Pelliconi, quella sana ossessione per l’innovazione

«Il packaging deve essere bello, intelligente e responsabile. Prima del business c’è la comunità, ci sono le persone»

27/10/2021

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Da un’intuizione quasi un secolo fa è nato un colosso sulla via Emilia che continua a sfornare soluzioni hi-tech e sostenibili. Così l’azienda leader mondiale nella produzione di tappi per l'industria dell'imbottigliamento guarda al futuro. Per FARE Insieme Giampaolo Colletti intervista Marco Checchi, AD del Gruppo Pelliconi

di Giampaolo Colletti

@gpcolletti

Photocredit: Giacomo Maestri e Francesca Aufiero

C’è un’impresa che brinda 32 miliardi di volte all’anno. Perché tanti sono i tappi che nascono in quella via Emilia che brulica di intuizioni e innovazione. Tappi che vengono prodotti e aperti in ogni angolo del mondo, ma che hanno un cuore italiano, anzi emiliano. Siamo a Ozzano dell’Emilia, meno di quindicimila anime nell’area metropolitana bolognese. Qui negli anni ‘60 si trasferisce la Pelliconi, che nasce però molto prima sotto le Due Torri. Correva l’anno 1939 e Angelo Pelliconi, un piccolo produttore di minuteria metallica, un giorno da un tappo a corona su una bottiglia americana ci trovò altro, dando vita alla Ditta Angelo Pelliconi, diventata oggi Pelliconi Spa, emblema del made in Italy nel settore delle chiusure per bottiglie. Storia di innovazione di prodotto, ma anche di ricerca spasmodica per nuove idee che vanno oltre il metallo o la plastica, componenti tradizionali del packaging per l’industria del food & beverage. Agli esordi l’azienda contava una quarantina di dipendenti motivati e multitasking, come si direbbe oggi. Il trasporto delle lastre si faceva a mano e i tappi nascevano su macchine semi-automatiche. Qui prendevano vita anche le capsule da olio e da vino e persino le confezioni delle mitiche pasticche del Re Sole. Poi nel 1975 fanno ingresso le prime macchine per tappi a corona evolute. Da qui i tappi con guarnizioni in sughero, fino poi all’approdo al PVC negli anni ’80. E infine nel 2008 l’approdo al rivoluzionario tappo a strappo Maxi P-26. «Non abbiamo mai smesso di fare innovazione, per noi è sempre stata una sana ossessione. In fondo il packaging deve essere bello, intelligente e responsabile». Lo ripete come un mantra Marco Checchi, Amministratore Delegato di Pelliconi, manager entrato in azienda nel 1984 come direttore acquisti e da quest’anno Cavaliere del Lavoro.

Innovazione dal cuore verde

Il mercato di riferimento è legato alla birra al 50%, poi ci sono le bibite e le acque minerali. Ma per capire bene l’impatto nel settore dobbiamo pensare che queste soluzioni vengono adottate ovunque. «Siamo convinti che il nostro approccio alla sostenibilità del business sia la scelta migliore per continuare il percorso di successo che ci ha permesso di diventare quello che siamo oggi. Per assicurare a clienti e consumatori i migliori prodotti tutti i nostri stabilimenti hanno aderito a standard internazionali sempre più esigenti in termini di qualità, sicurezza alimentare e ambiente. La nostra creatività è rivolta a ciò che è utile. E ancora prima c’è il rispetto: per le persone, per la comunità, per l’ambiente», dice Checchi. L’imbottigliatore è così sostenibile, ma anche hi-tech. Come gli imballaggi, sempre più riciclabili e ridotti al minimo. E poi ci sono le innovazioni legate all’intelligenza artificiale, col controllo e il riordino dei tappi in magazzino. «Siamo orientati alla massimizzazione dei profitti, ma in modo consapevole. La sostenibilità fa parte del nostro DNA da sempre. Abbiamo un bilancio di sostenibilità dal 2011, da quest’anno revisionato da Deloitte & Touche SpA. Solo in questo modo si lega il business ad azioni concrete e misurabili per la salvaguardia dell’ambiente. Penso al risparmio energetico, al controllo delle acque, alla gestione dei rifiuti, alle attività legate alla formazione e alla sicurezza sul posto di lavoro», precisa Checchi. Prima del business o del dividendo per gli azionisti c’è la comunità. Nel 2020 l’azienda ha lanciato “Pelliconi Plants a Forest”: con la startup Treedom è riuscita a piantare 3282 alberi in 5 Paesi del mondo e a sostenere duecento contadini con le rispettive famiglie.

Prima del business, la cultura
Radici ancorate al territorio e la capacità di scalare i mercati. Ad oggi Pelliconi conta cinque stabilimenti nel mondo: due in Italia, a Ozzano dell’Emilia e ad Atessa, in provincia di Chieti. Poi c’è lo stabilimento egiziano al Cairo, quello a Orlando negli Stati Uniti, quello a Suzhou in Cina ed è in fase di apertura il sesto nel distretto nazionale high-tech di Changzhou. Oggi l’azienda dà lavoro a quasi 600 persone con un fatturato annuo di 154 milioni di euro e un export che sfiora il 95% della produzione, arrivando in più di 100 Paesi. La chiave è l’essere glocal. Vicini al locale ma internazionali. È la cultura del local for local basata sulla trasparenza, sul rispetto, sull’ascolto. Un’azienda col tetto di cristallo. D’altronde la vision si esplicita nel “modo di essere, pensare, lavorare”. «Questo approccio ha anche un vantaggio competitivo. E poi le persone devono essere quelle che sono. Questo consente di entrare per esempio nella stessa lunghezza d’onda del consumatore cinese, che non è uguale a quello africano». Attenzione alle diverse culture, ma anche alle diverse generazioni. Nasce così dieci anni fa il Laboratorio Angelo Pelliconi “Università per la creazione del valore”: un contenitore di opportunità formative per i dipendenti e per la comunità con i corsi tenuti dagli stessi manager che lavorano in azienda. «Si tratta di una scuola che insegna le basi di economia per tutti i dipendenti. Facciamo parlare i nostri anziani, la memoria storica: così tramandiamo la tradizione della cultura industriale. Questo è il vero passaggio di trasmissione intergenerazionale. La cultura non deve diventare una zavorra perché l’azienda ha bisogno di cambiamento, ma può sintetizzare principi e costruire rinnovamento», dice Checchi.      

Un tappo che fa molto altro

«La parola smart ha diverse accezioni. Oggi significa che un packaging è intelligente perché è in grado di raccogliere informazioni sul contenuto, facendo una sorta di profilazione. Ma c’è anche un'altra accezione, che declina il pack in qualcosa di più: tutto questo implica l’utilizzo di minore materia prima, ma anche l’adozione di forme che possano consentire anche altri utilizzi dello stesso tappo», racconta Checchi.  Un tappo che fa altro, oltre all’essere tappo. La ricerca apre a nuovi scenari per un marketing che si reinventa sfruttando anche i materiali in continua evoluzione. Pelliconi ha creato così un tappo a corona che al posto dei denti presenta una bordatura e in quello spazio è possibile stampare delle informazioni aggiuntive. Ci sono poi altri aspetti legati ai nuovi materiali in lavorazione, come il fatto che non presentano metalli pesanti. «La ricerca migliora le prestazioni e contiene l’impatto sull’ambiente. Il tappo diventa una leva di marketing. Tutto è partito dalle promozioni fatte proprio sui tappi. In passato semplici attività, mentre oggi si creano codici alfanumerici che rimandano all’esperienza di navigazione sugli smartphone. Tutto questo permette agli imbottigliatori di fornire promozioni a ritmi serrati: oggi con un software possiamo cambiare rapidamente concorso, profilare i consumatori con uno specifico QR code e stampare sui tappi differenti tipologie di messaggi. Nascono anche trailer o giochi che partono da quel tappo che diventa molto di più». E poi c’è l’apertura verso le piccole e medie realtà artigianali, come le birrerie che stanno proliferando un po’ ovunque e che finora potevano utilizzare principalmente tappi anonimi.  Per loro è arrivato P•ink, il nuovo servizio per la stampa digitale su tappo, sviluppato internamente e brevettato per prodotti personalizzati anche in piccoli lotti.  

La famiglia allargata

Il futuro però si costruisce partendo dal passato e guardando al futuro. «Il nostro è un lavoro di squadra, in fondo siamo una famiglia allargata che va dagli Stati Uniti alla Cina. E come succede nelle famiglie quando qualcuno è in difficoltà lo si aiuta. D’altronde c'è un mazzo di carte dove ogni giorno puoi estrarne una e non sempre può andarti bene». La pandemia è stata una cosa del genere. Per Checchi il COVID19 ha messo a nudo le debolezze del sistema e ha ribaltato una normalità che si dava per scontato. «Noi abbiamo fatto il nostro lavoro ancora meglio e con procedure straordinarie messe in piedi in brevissimo tempo. E abbiamo imparato ad essere ancora di più squadra, e questo significa essere in ascolto». D’altronde solo con le orecchie tese si possono cogliere i segnali di futuro.

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