Fabio Tomassini è un progettista meccanico e lavora in Aime da tanti anni: prima come
collaboratore esterno poi come dipendente. Abbiamo raccolto le sue sensazioni e i suoi ricordi legati alla pandemia da Coronavirus.
Qual è il clima in azienda in questa fase
di cauto ritorno alla normalità?
"Dal mio punto di vista, a parte la preoccupazione
generale per questa situazione di emergenza sanitaria a quanto pare non ancora
terminata, il clima in azienda è stato piuttosto positivo e di collaborazione
da parte di tutti. Le precauzioni sono state prese in modo molto efficiente e
ci siamo sentiti tutelati dall’azienda per come è stata gestita l’emergenza
sanitaria. Al di là della paura e del timore che una persona può avere a
livello personale, il luogo di lavoro è sembrato a tutti un posto sicuro".
Come è cambiata la tua routine lavorativa
dopo l'8 marzo?
"Sono una persona che si adatta molto facilmente alle
situazioni, mi sono abituato piuttosto in fretta a questa nuova routine. Non mi
è pesato dover misurare la temperatura due volte al giorno prima di entrare a
lavoro, igienizzare le mani così di frequente o pulire tastiera e pc ogni
giorno. Mantenere la distanza di sicurezza è stato ancora più semplice,
praticamente c’era già. Non ci siamo dovuti adattare a turni di lavoro né a
stravolgimenti della postazione di lavoro, che è rimasta sempre la stessa per
tutti. Le mascherine sono state un po’ la prova del nove, il vero adattamento a
questa situazione quasi surreale. Non sarebbero nemmeno necessario per la
maggior parte del tempo vista la distanza che si riesce a mantenere, ma il
nostro lavoro ci porta spesso al confronto diretto con i colleghi dei vari
uffici, dalla produzione all’ufficio acquisti, e col tempo indossarle è
diventato per tutti un gesto di rispetto nei confronti dei colleghi più timorosi,
o semplicemente più fragili. A volte basta davvero poco per proteggere sé
stessi e gli altri".
E con l’inizio della cosiddetta ‘fase 3’?
"Non essendoci mai state particolari difficoltà, a
parte inizialmente qualche richiamo a qualche collega un po’ più 'distratto' degli altri, l’atteggiamento precauzionale è diventato quasi spontaneo e stiamo
portando avanti le nuove abitudini nonostante l’allentamento generale
dell’emergenza sanitaria".
La tua vita privata ne ha risentito?
"A parte la prima settimana di lockdown in cui
l’azienda è rimasta chiusa, non ho mai smesso di lavorare. Inizialmente
l’emergenza sanitaria ci ha portato a limitare le presenze in azienda, in parte
abbiamo lavorato in ufficio mentre altri hanno continuato da casa. Recarsi a lavoro
tutte le mattine mi ha fatto vivere questo lockdown in un modo forse meno
pesante, ma sicuramente molto consapevole: percorrere la via Emilia alle 8 del
mattino e incontrare 3 macchine in un tragitto di 15 km (per un mese, e non era
agosto) beh, è stata un’esperienza che non dimenticherò. Chi è uscito e ha
avuto modo di vedere com’era la realtà fuori casa si è forse reso conto che
tante cose banali ora non lo sono più. Questa situazione ha coinvolto tutta la
mia famiglia, da un giorno all’altro ci siamo ritrovati tutti e quattro a casa
a vivere una quotidianità completamente stravolta rispetto a prima. Diversa,
forzata, sul momento è pesante, nessuno si aspettava una situazione così ma
quell’armonia, quella forte unità che si è ricreata, quei nuovi punti di
incontro ritrovati, questo ha ripagato ogni cosa".
Che
cosa dirai, tra qualche tempo, quando dovrai ricordare questa esperienza?
"Per me è stato semplice adattarsi velocemente a
questa situazione, grazie al tipo di vita e lavoro che ho sempre fatto, ma
l’impatto psicologico è molto più forte a casa, si amplifica. Ho fatto cassa
integrazione e smartworking in passato, so cosa vuol dire. Sei scollato dalla
realtà, dentro le quattro mura di casa senza alcun confronto diretto con
colleghi, collaboratori, amici. Bisogna stare attenti, cercare di essere sempre
più flessibili e dinamici nell’abituarsi ai cambiamenti, ma soprattutto non
dimenticare".