di Generoso Verrusio
Classe 1953, giornalista di razza coriacea. Per lui parlano articoli, servizi e inchieste sui temi più caldi della storia italiana. Il mestieraccio ha avuto digressioni e slittamenti verso cinema e scrittura (sempre con pellicole e libri che hanno messo al centro la vivisezione dei fatti). La giuria tecnica del Premio Estense ha premiato Andrea Purgatori per il suo particolare stile nel fare informazione.
Una telefonata di Alessandra Sardoni
lo scorso 22 giugno e la notizia del conferimento del “Gianni Granzotto” è
ufficiale. Qual è stata la sua prima reazione?
"Emozione.
E una domanda a me stesso: me lo merito? Me la faccio ogni volta che ricevo un
riconoscimento, non importa quanto prestigioso. Penso sempre che ci sia
qualcuno che ha fatto più di me, meglio di me e anche che io stesso avrei potuto essere più
attento, profondo, completo. Non è questione di modestia ma di realismo. Ho
avuto la fortuna di lavorare a fianco di colleghi davvero grandi, ho sempre
cercato di rubare i segreti del loro modo di lavorare, di scrivere raccontando
o di farlo con le immagini e le parole. Certe volte ci sono riuscito, altre
onestamente no. Tuttavia, questa insoddisfazione di fondo credo sia necessaria
ad avere costantemente uno sguardo critico su questa professione. Quindi, sul
mio modo di svolgerla".
Inviato speciale, inviato di guerra, ma anche conduttore,
scrittore, sceneggiatore e attore. La cifra stilistica più genuina di Andrea
Purgatori qual è?
"Mah,
non saprei nemmeno io. Sono linguaggi diversi che si sono intrecciati in
esperienze diverse e in diversi momenti della mia vita professionale. Mi
intrigano tutti, ho cercato di provarli tutti. Anche in questo sono stato molto
fortunato. Ho scritto per il teatro di Marco Paolini, ho imparato il linguaggio
della satira con Corrado Guzzanti, quello del cinema con Ugo Pirro e Marco
Risi… ho conosciuto i più grandi scrittori di bestseller degli ultimi decenni e
di qualcuno, come Frederick Forsyth o Martin Cruz Smith, sono diventato persino
in qualche modo amico. Ecco, per dirla tutta, ho aperto un sacco di porte che oggi i miei colleghi più giovani faticano ad
attraversare perché questa professione è cambiata, si è come 'asciugata',
ridotta nelle possibilità e dunque nelle occasioni. Comunque, in fondo in fondo
credo di essere sempre rimasto un giornalista a cui gli altri linguaggi hanno
regalato la capacità di raccontare. E che sempre per fortuna e forse per fiuto
si è trovato ad assistere come testimone a eventi che sono un pezzo di storia
contemporanea".
Il buon giornalismo, per fortuna, è un mestiere che porta la
suola delle scarpe a consumarsi parecchio. Ma le specializzazioni del “new
journalism” fanno consumare soprattutto i polpastrelli delle dita. Quanto è d’accordo con queste affermazioni?
"Se
avessi avuto a disposizione Internet e un computer con tutte le banche dati del
mondo, non avrei impiegato anni per tante inchieste ma giorni. È un fatto e una
enorme opportunità. Però vedere di persona, ascoltare, incuriosirsi dei
dettagli di un luogo, dell’espressione di un testimone è qualcosa che la Rete e
un computer, per quanto potente, non possono sostituire. Questo manca e in
questo è cambiata la professione giornalistica. Non si tratta di raccontare la
storia di quanto eravamo bravi una volta a sbatterci per ore e giorni in mezzo
alla strada, non si tratta di fare i veterani. Si tratta di far capire ai
cosiddetti 'padroni dell’informazione' che investire sulle tecnologie è
fondamentale quanto investire sui professionisti. È vero che oggi le guerre
possiamo raccontarle attraverso le immagini che ci piovono da ogni fronte, ma
toccare con mano quegli orrori e comprenderne le motivazioni sul campo rimane
il cuore del giornalismo. Nelle storie grandi e in quelle piccole. Solo così si
misura il talento nel valutare una notizia e, quando è necessario, scavarci
intorno e in profondità".
Il giornalismo di inchiesta è sempre più una corsa a
ostacoli. E, forse, è persino salutare che sia (ancora e ineluttabilmente)
così. Senza buttarla in bagarre politica, come giudica la sentenza
del Tar del Lazio che ordina a Sigfrido Ranucci e alla redazione di Report di
consegnare all'avvocato Mascetti gli atti relativi al servizio giornalistico
che lo riguarda?
"È
una vecchia storia quella del potere (dei poteri) che cerca o pretende di
sapere dove e da chi un giornalista ha tratto una notizia. Dovrebbero sapere,
questi poteri, che per un giornalista le fonti sono il tesoro più prezioso da
tutelare. Cercare di svelarle è contro ogni regola che separa appunto il potere
da chi deve controllarne il funzionamento, ad ogni livello: cioè
l’informazione. Mi è capitato molte volte di trovarmi di fronte a magistrati
che pretendevano un nome, a chiunque faccia inchieste è capitato. E non pochi
colleghi hanno preferito finire in carcere piuttosto che rivelare le loro
fonti. È uno dei metodi classici per intimidire i giornalisti. L’altro sono le
querele a pioggia. Non è sano quel Paese dove il rapporto tra poteri e
informazione si riduce a questo braccio di ferro. Vuole sapere da che parte sto?
Da quella di Report, tutta la vita".
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