di Chiara Putignano
Dalla guerra
in Vietnam è passato del tempo. Eppure la maggior parte delle storie dei
giovani italiani arruolati nella Legione straniera francese restano ancora un
mistero. Un vaso di Pandora scoperchiato nel 2021 con “Soldati di sventura”. Da
allora Luca Fregona continua a ricevere richieste di famiglie di dispersi e
caduti.
Perché
sette, anzi settemila, giovani italiani avrebbero dovuto arruolarsi nella
legione straniera francese per una guerra tanto lontana?
Immediatamente
dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la Legione straniera era un
approdo naturale per una generazione bruciata dagli orrori (fatti o subiti)
della guerra. Una lunga fila di “ex qualcosa” con una vita da ricominciare
daccapo. Gli italiani erano la seconda nazionalità più numerosa dopo i
tedeschi: ex fascisti, ex partigiani e prigionieri di guerra ingaggiati dai francesi direttamente nei campi di
concentramento in Nord Africa. Questi “ex qualcosa”, seppur ancora
giovanissimi, avevano già avuto esperienze di combattimento, sapevano cosa li
aspettava. L’impatto con la disciplina brutale della Legione, sebbene
traumatico, non era comunque così devastante. La Legione, per loro, era una
specie di zattera di salvataggio per tirarsi fuori dai guai e dalla resa dei
conti del dopoguerra. Già a partire dal 1946, però, il cliché classico del
legionario romantico, criminale o dannato, in bilico tra espiazione e
redenzione, cambia radicalmente. Non si trattava più solo di reduci in fuga, ma
di giovani nati tra il 1922 e il 1935, in gran parte senza alcuna esperienza
militare, che scappavano da un nemico più feroce e immeritato: la miseria. In
centinaia espatriavano clandestinamente in Francia in cerca di lavoro. Una
volta scoperti, venivano messi di fronte a un bivio: galera (e poi il
rimpatrio) o Legione. Molti accettavano l’ingaggio semplicemente perché non
avevano scelta. Era comunque un lavoro con una paga. Alla fine della ferma di cinque anni, si
otteneva la cittadinanza francese con la promessa di un’occupazione dignitosa.
Implicita pesava però una clausola non indifferente: dovevano prima
sopravvivere. Quei giovani, ex minatori o clandestini, sapevano poco o nulla
della Legione, delle sue regole, della brutalità; ignoravano che l’ingaggio
(incoraggiato dalle autorità francesi che non potevano contare sui soldati di
leva), fosse un biglietto per l’inferno. E ancor meno sapevano dell’Indocina,
di Ho Chi Minh e delle colonie. Si calcola che siano stati dai sette ai
diecimila i giovani italiani che hanno combattuto in Indocina con la Legione
straniera dal 1946 al 1954: 526 sono i caduti “ufficiali”, a cui vanno aggiunti
i dispersi (un numero imprecisato), i disertori morti di stenti e malattie nei
campi viet, i feriti, e quelli tornati fuori di testa per lo stress post
traumatico.
Qual è stata
la sfida più grande nella raccolta delle testimonianze e delle storie personali
dei legionari?
Scrivere il
libro è stato semplice. Con i legionari ancora in vita ho trascorso molte ore,
li ho sentiti e risentiti sugli stessi episodi. Siamo diventati amici. Mi hanno
fatto leggere documenti, rapporti, corrispondenza. Certi vecchi hanno bisogno
di tempo per ricordare, fidarsi, superare le reticenze, confidarti anche le
cose di cui si vergognano. I loro demoni, gli incubi che ancora li agitano.
Avevo tutto chiaro in testa. Ho incrociato i loro racconti con informazioni
raccolte in banche dati, libri, archivi, nei rapporti militari. L’apporto delle
famiglie, poi, è stato fondamentale. Avevo già scritto un libro, Soldati di
sventura, con altre testimonianze molto circostanziate raccolte negli anni.
Dopo la pubblicazione, ho iniziato a ricevere mail, messaggi, telefonate da
figli, fratelli, nipoti di altri legionari italiani. Scrivevano dall’Italia,
dalla Francia, dalla Germania. Era la prima volta che trovavano scritta su
carta una storia che i loro cari, reduci di Indocina, non raccontavano volentieri,
ma che gravava come un’ombra oscura. Molti di quei legionari hanno faticato a
rientrare nella vita normale. C’è chi ha bruciato il resto dell’esistenza
nell’alcol o in una vita randagia. E c’è chi ha voltato le spalle alla vita
facendola finita. Nella scrittura ho inserito alcuni “espedienti” narrativi
per spingere sui “non detto”, sulle
emozioni che percepivo nei colloqui, sulle cose che hanno voluto farmi capire
con un cenno degli occhi o un gesto. I fatti riportarti però sono fedeli. Qua e
là, ho alleggerito la crudezza di alcuni episodi.
Come mai nel
raccontare ha scelto di utilizzare la prima persona?
Per dare un
ritmo più forte, portare il lettore a immedesimarsi. Io mi metto di lato e
faccio parlare i protagonisti. Nella mia testa, la scrittura deve essere un
flusso continuo che rispetta l’esperienza, le motivazioni e il travaglio di
uomini che, all’epoca, erano solo dei ragazzi. Non giudico, tocca al lettore
farsi un’idea. La prima parte di “Laggiù dove si muore” è incentrata sul
racconto di Giorgio Cargioli, un legionario ancora vivente di La Spezia. Con
lui ho passato giornate intere a rivivere i suoi anni di Indocina. E’ stata
un’esperienza così intensa, che la prima persona è venuta da sé. Cargioli era
espatriato clandestinamente a 18 anni nella primavera del 1953. Era entrato in
Francia dal “Passo della morte”, il sentiero dei contrabbandieri che parte da
Ventimiglia e che ancora oggi è utilizzato dai migranti. Un sergente della
Legione lo convinse a firmare l’ingaggio in cella, dopo che essere stato
arrestato dalla gendarmeria. Giorgio tentò di disertare già in Algeria. Poi ha
combattuto in Indocina, nel Delta del Tonchino, sino al cessate il fuoco del 21
luglio ‘54. Dopo l’armistizio, disertò di nuovo per non essere costretto a fare
le stesse cose in Algeria. Ma il suo calvario in Vietnam non era ancora
finito...
Tra le
storie raccontate, ce n’è una che l’ha colpita particolarmente? Se sì, perché?
Sono
affezionato a ogni storia e a ognuno dei sette protagonisti del libro. Ogni
vita raccontata merita il medesimo rispetto. Mi interessava capire perché un
ragazzo di 17, 18 anni molla tutto e firma l’ingaggio. Qual era il suo vissuto
“prima”. Le aspirazioni, la disperazione, i sogni anche. Un ragazzo di Bolzano,
Afredo Decarli, ucciso a Dien Bien Phu due settimane dopo essere sbarcato a
Saigon, è stato convinto ad arruolarsi da un reclutatore che agiva illegalmente
sul territorio italiano. Questo trafficante di essere umani, pagato al “pezzo”,
lo aveva illuso che nei cinque anni di ingaggio sarebbe diventato così ricco da
ottenere finalmente l’assenso al matrimonio dei genitori della sua fidanzata
(erano contrari perché lo consideravano di un ceto sociale inferiore). Questi
reclutatori non avevano alcun tipo di scrupolo morale.
Ha detto che
sono state proprio le famiglie a inviarle fotografie, lettere, cartoline e
ritagli di giornale. Chiedendole di ricostruire una storia «che non trovavano
da nessuna parte». Che feedback ha ricevuto da loro dopo la pubblicazione del
libro?
Moltissimi.
E continuo a riceverne. L’ultimo qualche giorno fa, meriterebbe un libro a
parte. Mi ha scritto una signora, figlia di un legionario disertore e di una
vietnamita. Il padre aveva disertato dopo aver maturato una profonda avversione
alla guerra colonialista. Dopo la fine del conflitto, era rimasto a vivere nel
Tonchino. Ha sposato questa ragazza, di cui era innamoratissimo, e hanno avuto
quattro figli. Agli inizi degli anni ‘60, deluso dal regime comunista e dalle
difficili condizioni di vita in Vietnam, era riuscito a portare moglie e figli
in Italia. In famiglia ha raccontato sempre poco della guerra. La figlia, che è
ancora in contatto con le zie in Vietnam, voleva capire che esperienze avesse
vissuto il papà durante il conflitto. Un’altra signora in una foto a pagina 308
ha riconosciuto il fratello, Luigi Baldassari, di cui non sapeva più nulla dal
1950, da quando si era ingaggiato nella Legione. Luigi, amico di uno dei
legionari raccontati in “Laggiù dove si muore”,
è stato ucciso vicino a Huè nel 1952. Alfredo Decarli, quel ragazzo di
Bolzano di cui parlavo prima, non figura nella
banca dati dei caduti in Indocina. La sorella mi aveva chiesto di darle
una mano per capire che fine avesse fatto. Si era illusa fosse ancora vivo da
qualche parte. Con un canale della Legione, siamo arrivati al fascicolo che si
era perso nei meandri della burocrazia militare. E’ venuto fuori che era stato
ammazzato a Dien Bien Puh il 19 aprile 1954, lunedì di Pasqua, e decorato con
la Stella d’argento per essere “Morto per la Francia”. Aveva solo 20 anni. La
famiglia ha saputo la verità nel 2023. A volte, grazie ad alcuni canali, riesco
a trovare tracce come questa. Altre, purtroppo, no.
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