di Silvia Conforti
Nel cuore della Russia, lungo il Volga, Marzio G. Mian indaga i segni di un’identità in bilico tra passato e propaganda. Volga blues è il racconto di un Paese che si reinventa la memoria, reprime il dissenso e si prepara alla guerra come destino.
Il Volga è memoria, propaganda, identità. Quanto pesa questo fiume sul destino della Russia?
Nella mia esperienza di racconto del contemporaneo attraverso i grandi fiumi del mondo, non mi era mai capitato di percepire così intensamente di trovarmi sulla rotta maestra, di aver imboccato l’unica via possibile per provare a ottenere le risposte che cercavo. Potrei fare vari esempi di fiumi che mi hanno offerto una chiave formidabile per penetrare la realtà, penso al Tamigi, al Mississippi, alla Drina in Bosnia. Naturalmente al Tevere, di cui ho scritto un libro-biografia. Ma qui è stato diverso, perché la Russia è il paese più grande del mondo, e il Volga – come mi ha detto il direttore dell’Ermitage – ne è l’autobiografia. Un fiume-destino, appunto. Dove è accaduto tutto ciò che ha determinato l’esistenza della Russia, e che ancora è baricentro di fatti e idee. Dal punto di vista strettamente giornalistico, ad esempio, non potevo non verificare che lungo il Volga come la Russia abbia aggirato le sanzioni e trafficato con l’Iran in armi, petrolio, medicinali etc. È accaduto utilizzando l’asse Volga-Caspio e il sistema delle acque interne realizzato da Stalin e ampliato da Putin.
Dai monasteri ortodossi alle rovine sovietiche, il suo viaggio tocca luoghi carichi di stratificazioni ideologiche. Qual è, secondo lei, la memoria che oggi la Russia sceglie di conservare e quella che invece tenta di cancellare?
Anche nel cosiddetto Occidente si manipolano la memoria e la smemoratezza. Ma in Russia il passato è fatto di plastilina, lo si adatta a seconda della necessità del momento. Soprattutto con due obbiettivi, glorificare la grandezza imperiale della Russia e rivendicare i molti torti storici subiti. Orgoglio e vittimismo. Dopo il crollo dell’Urss e del comunismo la Russia ha dovuto reinventarsi una missione nella Storia, soprattutto una grande idea di sé in cui credere fino alla morte. L’apporto principale è arrivato dall’antica fede ortodossa, da sempre fondamento ideologico dell’idea imperiale russa. Ma l’operazione più sofisticata del regime putiniano è stata quella di riabilitare l’Urss senza riabilitare il comunismo, soprattutto il bolscevismo. Il grande ritorno del mito di Stalin, di cui tratto nel mio libro sulla base della mia testimonianza sul campo, rientra nel piano di associare il vincitore della guerra al nazismo al leader della guerra attuale, raccontata come una guerra di difesa dall’offensiva occidentale anti-russa. Il parafulmine di tutti i mali dell’Unione sovietica è oggi Lenin, anche se continua a presidiare oltre cinquemila piazze.
Il libro è attraversato da un interrogativo quasi esistenziale: cosa significa essere russi oggi? Dopo l’invasione dell’Ucraina, la risposta che ha trovato è più legata alla paura o al senso di appartenenza?
Le due cose sono strettamente legate appunto da una questione esistenziale. La mia convinzione è che la vera religione dei russi sia la Russia stessa. Da una parte c’è il credo assoluto e messianico nella sua grandezza, fisica e metafisica, che porta a desiderare, bulimicamente, una Russia sempre più estesa; dall’altra la consapevolezza della sua fragilità, e quindi la paura che la Russia possa crollare, cioè fare la fine dell’Unione sovietica. C’è grande stanchezza e anche smarrimento per la guerra, ma non paura della guerra. La paura è quella del destino della Russia. Per questo è molto ampia la fiducia in uno zar forte e altrettanto ampio il timore di essere governati da uno zar in difficoltà, come accaduto in altri periodi della storia Russa quando la debolezza del potere centrale ha messo a rischio la sopravvivenza della Russia. La cosa più impressionante, da un punto di vista europeo, è quanto sia radicato il sentimento apocalittico della morte, cioè la disponibilità a morire per la Russia. Quando Putin afferma che la Russia non può perdere si riferisce a questo. Questa è la minaccia nucleare da non sottovalutare.
Nel suo racconto la Seconda guerra mondiale è ancora chiamata “grande guerra patriottica”. Quanto pesa questa memoria nella costruzione dell’identità russa contemporanea, e come viene oggi usata dal potere?
È il mito fondante del potere di Putin. Serve per costruire l’ideologia della “sua” Russia, che crede nella vittoria a costo d’inimmaginabili sacrifici. Serve per creare una continuità con l’Unione sovietica, sovrapporre la storia della nuova Russia imperiale a quella dell’impero nato dall’epica vittoria sul nazismo. E serve come minaccia e monito per l’esterno: siamo sempre noi, fate bene i vostri calcoli. Ad esempio sono certo che dopo aver cambiato il nome dell’aeroporto di Volgograd – l’ex Stalingrado - in aeroporto di Stalingrado, cambierà il nome alla città attraverso un finto referendum. Putin è riuscito a coinvolgere anche la nomenklatura ecclesiastica nella consacrazione del mito: pope, vescovi e metropoliti associano la seconda guerra mondiale alla guerra attuale, dove la Russia ieri come oggi è chiamata a combatte il demonio per la salvezza dell’umanità.
Racconta un Paese dove tutto sembra calmo, ma sotto la superficie si muovono rabbia, frustrazione e paura. È una calma apparente o la vera forza di un regime che ha imparato a dosare la repressione?
È forse questo il mistero più complicato da indagare per chi non si limita a raccontare i fatti ma vuole offrire elementi per interpretare la psicologia di un popolo, esplorare le idee che circolano nelle vene della società. In un certo senso il capitolo dedicato a Ulianosk, la città di Lenin, Kerensky e Gonciarov è quello dove il lettore trova parecchi ingredienti per cogliere l’irrazionalità della storia russa. Dai miei incontri e dall’osservazione della realtà russa di oggi, mi sono reso conto che poco è cambiato nel carattere di quel popolo nei secoli: fondamentalmente remissivo, indifferente e fatalista rispetto al potere e alle sue forme repressive, anche le più feroci; ma nelle pieghe dei discorsi e dagli sguardi s’intuisce che cova come una brace lo scontento individuale, addirittura la disperazione, che potrebbe divampare in un incendio collettivo.
Il viaggio con Vlad e Katja si trasforma in una relazione rischiosa, quasi da spy story. Quanto è difficile oggi, per un giornalista occidentale, raccontare la Russia senza mettere in pericolo chi ti aiuta a farlo?
Nel libro ho dichiarato che più che l’azzardo mio e dell’amico fotografo Alessandro Cosmelli ad aver reso possibile questo viaggio e questo racconto è stato il coraggio di Vlad. Nonostante la relazione con lui – e soprattutto con Katja – fosse divenuta sempre più complicata e pericolosa, ho sempre considerato le conseguenze che avrebbe comportato per lui un eventuale “incidente” con i servizi di sicurezza. Con il tempo è prevalso il sentimento di gratitudine al ricordo di certi momenti di pericolo e di paranoia.
Dopo questo viaggio, cos’è rimasto di più: il silenzio delle persone, i paesaggi immensi, o la sensazione di essere stati testimoni di qualcosa che l’Europa si rifiuta di affrontare fino in fondo?
È rimasto il rammarico di non aver potuto coltivare dei rapporti con alcune delle persone incontrate. C’era l’accordo di scriverci, ma tutti – tranne uno – non hanno mai risposto alle mie lettere. Soprattutto dopo che Harper’s magazine nel corso del fact cheking per il mio lungo reportage (l’embione del libro) li ha contattati per verificare, parola per parola, le loro dichiarazioni. Chiaramente è prevalso il timore di finire nella rete della sorveglianza di Stato. Eppoi sì, con il tempo è addirittura cresciuta la consapevolezza di aver prodotto – insieme al fotografo Cosmelli – l’unica testimonianza giornalistica internazionale sulla Russia profonda al tempo della guerra. In fondo di aver acceso un faro lì dove era calato il buio dell’informazione.
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